Depressione e malattie cardiovascolari

La ricerca portata avanti negli ultimi 60 anni ha chiaramente dimostrato che i cosiddetti “fattori di rischio psicosociali” possono essere considerati equivalenti ai “fattori di rischio biologici” già noti, nella genesi delle malattie cardiovascolari e dell’infarto miocardico acuto (Rozanski 1999, 2005, 2011). In particolare la depressione (maggiore, minore e atipica), le sindromi ansiose, l’isolamento sociale, la rabbia/ostilità e lo stress vitale acuto e cronico, possono essere considerati equivalenti alla familiarità per malattie cardiovascolari, il fumo, l’ipercolesterolemia, il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa e l’obesità (ibid).
Uno studio molto importante, “The INTERHEART study”, pubblicato nel 2004, ha valutato l’associazione dei fattori di rischio con l’infarto miocardico acuto in 15.152 casi di infarto miocardico acuto, che sono stati paragonati a 14.820 soggetti di controllo, quindi senza infarto miocardico, in 52 nazioni distribuite in tutti i continenti. In questo studio i fattori di rischio psicosociali si sono attestati al 3° posto dopo la dislipidemia e il fumo, ma prima del diabete mellito, l’ipertensione arteriosa e l’obesità. I fattori psicosociali valutati sono stati la depressione, lo stress lavorativo, lo stress domestico, lo stress finanziario e lo stress secondario ad eventi della vita nell’anno precedente l’infarto miocardico acuto (Yusuf 2004).
In particolare la depressione sembra essere il fattore di rischio psicosociale, che influenza maggiormente la prognosi cardiovascolare, determinando un aumento significativo della mortalità sia per cause cardiovascolari che per altre cause, in pazienti con malattia coronarica nota e scompenso cardiaco a genesi ischemica e non ischemica (Lesperance 1996, Nakamura  2012).
La disperazione è un aspetto particolare della depressione e è stata collegata alla morte improvvisa sia in studi su animali, che in studi osservazionali (Ritcher 1957, Bruhn 1974).
Gli effetti della depressione sono potenziati dall’isolamento sociale, così come possono essere mitigati da un elevato supporto sociale (Rozanski 1999, 2005, 2011). Il supporto sociale è rappresentato dalle risorse offerte all’individuo da altre persone durante e dopo eventi stressanti, tra cui, principalmente, il lutto. In particolare la rete sociale di supporto può provenire dalla presenza di un contesto famigliare, il numero di amici e la partecipazione ad attività organizzate e di gruppo (Cohen e Syme 1985).
Quando più fattori di rischio per malattie cardiovascolari, sia biologici che psicosociali, sono presenti nello stesso individuo, questi si sommano potenziandosi reciprocamente e aumentando notevolmente il rischio di insorgenza di una patologia cardiovascolare (Rozanski 1999).
La depressione, così come gli altri fattori di rischio psicosociali, possono favorire o addirittura causare l’insorgenza della patologia aterosclerotica e di eventi coronarici acuti (angina, infarto miocardico acuto) sia agendo indirettamente, favorendo stili di vita disfunzionali e non salutari (fumo, vita sedentaria, dieta ricca di grassi e carboidrati), che direttamente attivando il sistema neurovegetativo, endocrino, immunitario e coagulativo.
Per quel che concerne il sistema della coagulazione, nella malattia coronarica cronica si verifica un graduale deposito di fibrina all’interno delle placche aterosclerotiche. Inoltre un milieu procoagulante gioca un ruolo cruciale nell’angina instabile, nell’infarto miocardico acuto e nella morte improvvisa, promuovendo la rapida formazione di un trombo su una rottura di placca, con conseguente esposizione di materiale della placca alla circolazione sanguigna, in particolare il fattore tissutale (Chamacho 2000, Von Kanel 2001). La ricerca degli ultimi 90 anni ha indagato ampiamente la relazione tra fattori psicogeni e fattori della coagulazione.
In particolare oggi sappiamo che nei soggetti sani lo stress mentale acuto attiva contemporaneamente la coagulazione (fibrinogeno e fattore di von Willenbrand) e la fibrinolisi (attivatore del plasminogeno tissutale) entro un range fisiologico. Nei pz con aterosclerosi e alterata funzione anticoagulante dell’endotelio si ha una risposta procoagulante agli stressors acuti (aumento del fibrinogeno e del fattore VII) e ridotta capacità fibrinolitica (ibid). Inoltre è stato dimostrato che la depressione determina una attivazione delle piastrine, le cellule responsabili della formazione del coagulo, con liberazione di granuli intracellulari che favorirebbero il processo coagulativo (ibid).
Infatti l’aumento del fibrinogeno ematico, un fattore della coagulazione facilmente determinabile in laboratorio, è considerato un fattore di rischio per coronaropatia e si associa a un aumento dell’incidenza di morte e infarto miocardico acuto, indipendentemente da altri fattori di rischio (Toss 1997).
La depressione inoltre attiva il sistema dello stress, con conseguente aumentata produzione di cortisolo e attivazione del sistema neurovegetativo (Bottaccioli 2005).
Il cortisolo esplica numerose azioni, tra cui l’aumento della coagulabilità ematica.
Il sistema nervoso simpatico acutamente o cronicamente attivato agisce a livello dell’apparato cardiovascolare determinando aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa e determinando vasocostrizione coronarica, con conseguente ischemia miocardica. Oltre a ciò il sistema nervoso simpatico ha un effetto proaritmogenico, cioè facilita l’insorgenza di aritmie cardiache, può determinare un danno dell’endotelio vascolare e un aumento della coagulazione ematica (Rozanski 1999).
Infine l’altro protagonista che scende in campo è il sistema immunitario; infatti alcuni studi hanno evidenziato la produzione di classi di linfociti anomali durante l’angina instabile  (Neri Serneri 1997; Liuzzo 1999; Caligiuri  2000). A sua volta il sistema immunitario determina un’attivazione dell’infiammazione, con conseguenti aumenti plasmatici della Proteina C Reattiva (PCR) e delle citochine pro infiammatorie IL-6, TNF-α, e sIL-6R.
Nella depressione maggiore è stata rilevata un’attivazione dell’infiammazione, con conseguenti aumenti plasmatici della Proteina C Reattiva (PCR) e delle citochine pro-infiammatorie. L’infiammazione non è solo specifica della depressione, ma è il meccanismo che media tutti gli altri stress, attivando l’asse dello stress e il cortisolo (Maes 1995). La proteina Creattiva è un indice a valle dell’infiammazione in corso e può essere facilmente rilevata con gli esami ematochimici. Tale stato infiammatorio è predittivo della prognosi, non solo nei pazienti affetti da cardiopatia ischemica, ma anche nei soggetti sani ed è largamente indipendente dai fattori di rischio tradizionali (Toss 1997).
A completamento del quadro la ricerca degli ultimi decenni ha dimostrato che anche il sistema immunitario è collegato al sistema nervoso centrale in maniera bidirezionale. In particolare il sistema nervoso centrale produce dei neuropeptidi che agiscono a livello dei linfociti e viceversa (Bottaccioli 2005).
In sintesi oggi la ricerca ci ha permesso di comprendere che tutti i sistemi che regolano il nostro organismo sono collegati secondo una relazione bidirezionale, in particolare il sistema nervoso centrale e neurovegetativo, il sistema endocrino e il sistema immunitario (ibid). Questo ci permette di comprendere perché una variazione dell’umore come si verifica nella depressione, possa avere conseguenze che si riflettono a livello di tutto il nostro organismo.  
Infine è importante conoscere alcuni dati epidemiologici relativi alla depressione.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la depressione è la maggiore causa di disabilità a livello mondiale ed è risultata essere la 4ª causa di malattia nel 2000. Si verifica in persone di entrambi i sessi e tutte le età e affligge 121 milioni di persone nel mondo. Secondo i dati dell’OMS relativi al 2012 più di 350 milioni di persone nel mondo soffrono di depressione.
In uno studio epidemiologico condotto nella popolazione USA nel 1994, la prevalenza della depressione maggiore è risultata circa il 5%. Nei pazienti con malattia coronarica la prevalenza della depressione maggiore è risultata circa 3 volte più alta. Anche i sintomi che non rispondevano ai criteri della depressione maggiore si verificavano con più frequenza nei pazienti cardiopatici, rispetto alla restante popolazione (Blazer 1994).
Uno studio italiano pubblicato nel 2001, ha valutato la prevalenza della depressione in un campione rappresentativo della popolazione italiana di 3550 soggetti e ha evidenziato una prevalenza simile a quella di altri paesi europei. In particolare la depressione maggiore e la depressione minore avevano una prevalenza dell’8% e del 2,9% rispettivamente (Dubini 2001). Un successivo studio sulla popolazione italiana del 2010 ha confermato questi dati nella popolazione generale (Binkin 2010). I fattori predisponenti all’insorgenza di depressione sono risultati essere l’età avanzata, il sesso femminile, un basso livello scolastico, la mancanza di un lavoro, l’avere problemi finanziari e la presenza di malattie croniche (ibid).
Non esistono studi sulla popolazione italiana che comparino l’incidenza della depressione in un campioni di soggetti sani rispetto a un campione di pazienti con infarto miocardico acuto (IMA). Per questo motivo abbiamo condotto uno studio presso l’ospedale San Filippo Neri di Roma nel 2010, in cui abbiamo valutato la prevalenza della depressione nei pazienti con IMA, confrontata con un campione di controllo di soggetti sani (Marchei 2010). Sono stati arruolati consecutivamente 101 pazienti ricoverati per IMA, a cui è stato somministrato un test psicometrico per la depressione (Beck Depression Iventory – BDI). Nello stesso periodo sono stati arruolati in maniera randomizzata 100 soggetti sani, cioè esenti da patologie mediche rilevanti in atto, che sono stati analogamente valutati per la depressione con il BDI. L’età media dei pazienti con infarto acuto è risultata essere di 56±9 anni, mentre i soggetti del gruppo di controllo  sono risultati più giovani di circa 10 anni (età media= 46±11), con una differenza statisticamente significativa tra 1 due gruppi (p<0.0001). Inoltre i soggetti del gruppo di controllo avevano una scolarità superiore. Tuttavia nonostante ciò e nonostante le nostre aspettative, il livello di depressione è risultato essere uguale nei 2 gruppi e per tutti i livelli di depressione. In particolare 33/101 (34%) dei pazienti cardiopatici sono risultati depressi, rispetto a 27/100 (27%) dei soggetti sani, senza una differenza statisticamente significativa. Anche andando ad analizzare i vari livelli di depressione (lieve e clinicamente rilevante), non ci sono state differenze significative tra i due gruppi.
Questo è un piccolo studio, ma sicuramente deve far riflettere l’elevata incidenza di depressione rilevata in soggetti apparentemente sani. Anche se questi dati necessitano di una valutazione epidemiologica più ampia, la grande diffusione della depressione impone una riflessione per tutti i professionisti della salute e la necessità di implementare interventi di prevenzione secondaria e di riabilitazione nei soggetti cardiopatici, ma anche elaborare progetti di prevenzione primaria nella popolazione generale.

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